Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli

Il delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, previsto dall’articolo 572 del Codice Penale, punisce il soggetto che maltratti una persona della famiglia, oppure un minore di quattordici anni, ovvero una persona sottoposta alla sua autorità, alla sua vigilanza, cura o custodia, oppure a lui affidata per ragioni di educazione o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Andiamo ad approfondire, seppur in maniera generica, il discorso di tali maltrattamenti con la figura dell’avvocato penalista Giuseppe Migliore cercando di andare a toccare quali siano i comportamenti che possano essere ricompresi nelle fattispecie elencate dal predetto articolo.

Sebbene il caso tipico del delitto di maltrattamenti sia quello costituito da condotte illecite tenute nei confronti di familiari (più spesso il coniuge, a volte i figli oppure addirittura gli anziani genitori) dalla lettura della norma appare evidente come la stessa sia suscettibile di trovare applicazione in una molteplicità di casi e situazioni diverse. La norma in particolare ricomprende anche i casi dei bambini maltrattati

Tali casistiche possono dirsi accomunate dal particolare rapporto che lega il colpevole e la vittima: vi deve essere infatti un rapporto di tipo (se non strettamente familiare) para-familiare, caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, oppure dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, nonché dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Proprio in ragione dell’esteso ambito applicativo della norma in oggetto la Giurisprudenza ha ritenuto che la condotta di cosiddetto “mobbing” in ambito lavorativo, dovesse essere sussunta nell’ipotesi delittuosa dei maltrattamenti in famiglia, proprio in ragione della consuetudine dei rapporti, dell’intensità ed abitualità degli stessi, della posizione di supremazia del datore di lavoro o del capo sul dipendente.
Con riferimento invece ai classici casi di maltrattamenti in famiglia la Giurisprudenza ha avuto modo di precisare come il delitto sia integrato anche al di fuori della cosiddetta famiglia legittima, ad esempio nei casi di convivenza more uxorio.

Dal punto di vista oggettivo il reato in questione è definito “abituale” poiché presuppone una reiterazione e ripetizione di comportamenti di natura vessatoria, o violenti, o di umiliazione, o di disprezzo o offesa, che assumono rilevanza ai fini del reato di maltrattamenti proprio in ragione della loro abitualità e ripetizione per un lasso apprezzabile di tempo, di modo da rendere assolutamente dolorosa, avvilente ed intollerabile la prosecuzione del rapporto familiare o para-familiare.

In altre parole singoli episodi che di per sé sarebbero ai limiti del penalmente rilevante, oppure che tutt’al più costituirebbero reati di minore gravità (magari neanche punibili per difetto di querela) come delle semplice ingiurie o minacce o percosse, integrano il reato in oggetto a causa della loro ripetizione nel tempo.

Le condotte di maltrattamenti devono essere tali da costituire per la persona offesa una fonte di disagio continuo, incompatibile con le normali condizioni di esistenza, e, pur non essendo richiesto un totale stato di soggezione della vittima nei confronti del colpevole del reato, i comportamenti illeciti devono rendere intollerabile la normale prosecuzione del rapporto.

Dal punto di vista delle pene applicabili il delitto in oggetto, che è procedibile di ufficio, è punito con la reclusione da due a sei anni; se dal fatto derivi una lesione personale grave la pena sarà dai quattro ai nove anni di reclusione, ovvero da sette a quindici anni nel caso derivi una lesione personale gravissima; infine, qualora dal fatto derivi la morte, la pena della reclusione sarà dai dodici ai ventiquattro anni.

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